L’attenzione degli studiosi, degli uomini di cultura e delle persone
sensibili ai richiami dell’arte, è risultata, nei riguardi di Giovanni Pascoli,
nel corso degli anni, sempre viva e costante, considerata la profonda
sensibilità del poeta per i temi dell’esistenza, per il mistero della vita, per
gli eventi - grandi e piccoli – del pianeta, nonché per la natura e per le sue
componenti vegetali ed animali.
Anche se, è giocoforza
aggiungere, doverosamente che, nella ricorrenza del centenario della morte del
poeta, caduta nel 2012, non si è fatto granché, almeno in Italia, salvo qualche
Convegno e l’emissione, da parte della Zecca e delle Poste italiane, rispettivamente,
di una moneta da 2 euro e di un francobollo da 60 centesimi.
La lirica e la poetica pascoliane
sono ricchissime, com’è noto, di contenuti penetranti, considerata l’alta
sensibilità del Romagnolo per tutti motivi legati agli enigmi del mondo e agli
accadimenti inspiegabili dell’esistere umano, non escluso, altresì, tutto ciò
che si manifesta nel regno delle piante e nella sfera degli esseri del creato.
Su queste due ultime componenti, hanno, di
volta in volta, indagato tanti esperti dell’intenso e, nel contempo, cupo
universo pascoliano, quantunque, di recente, sia stata una giovanissima
studiosa, Maria Cristina Solfanelli, a porre rimedio a qualche manchevolezza in
questo campo mediante il succoso saggio dall’indovinato titolo, ‘Pascoli e glianimali da cortile’ (Tabula Fati, Chieti 2014).
Giustamente, nella sua Presentazione, Vito Moretti, pone l’accento sulla
considerazione secondo la quale il poeta “si fa promotore di un recupero pieno
della natura, dove s’incontrano non solo individui umili (contadini, gente di
fatica, persone d’anima e di sudore), ma – significativamente – un gran numero
di animali: volatili e quadrupedi, pennuti e bestie da soma, selvaggina e
rettili (…), con un particolare rilievo arrecato ai cani dei quali Pascoli
amava contornarsi a Castelvecchio”.
Nel presente volume, l’Autrice dimostra una notevole padronanza della
materia trattata – frutto di intensa applicazione e di particolare amore per il
suo ‘auttore’, direbbe Vico – visto, essa scrive, che “la natura del poeta è,
appunto, una natura semplice e amica, popolata di carrettieri, di boscaioli, di
lavandaie, di tessitrici, di uomini e donne che abitano i loro campi e che
vivono le loro vicende assecondando i ritmi lenti delle stagioni e utilizzando
gli arnesi di sempre”.
In tale realtà, com’è noto, il poeta si
muove a menadito per il semplice motivo che egli sa scorgervi gli enigmi del
cosmo e i segreti dell’infinito in cui l’uomo è immerso; il tutto nel contesto
di un simbolismo in linea con i movimenti letterari e filosofici europei, fine
secolo, tendenti ad estrinsecarsi in forme espressive figurative avulse dai
normali nessi logici. Le dolorose vicende familiari, d’altronde, acuiscono
queste componenti del tormentato e pessimistico mondo pascoliano da lui,
icasticamente, definito “quest’atomo opaco del male”.
Anche ciò, in un clima di umanitarismo e fratellanza universali che
coinvolgono l’intera comunità concepita
come l’insieme delle persone, degli animali e delle piante costituenti un
organismo vivente nell’ambito di complesse relazioni con l’ambiente cosmico. Al
riguardo, così esplica Maria Cristina Solfanelli: “Giovanni Pascoli si avvede
assai presto che il suo amore per la natura gli permette di vivere le
esperienze più appaganti, se non fondamentali della sua vita” in quanto egli
“vede negli animali delle creature perfette da rispettare, da amare e da
accudire al pari degli esseri umani”.
Da qui, l’amore del grande Romagnolo per
la campagna - oasi di tranquillità e di pace - laddove la cosiddetta civiltà
resta soltanto il segno più tangibile di inautenticità, di artificiosità, di
corruzione, di inquietudine e di affanno; ma, da qui, inoltre, le riserve del
poeta per la scienza e per il cosiddetto progresso - tanto esaltato, dal
positivismo - ma, in fondo, fòmite di ansie, di apprensioni, di timori, di
turbamenti, in una parola, di dolori.
Tutto ciò, mette in rilievo anche l ’Autrice per la quale le riserve di
Pascoli per la modernità accentuano il suo legame alla “memoria domestica e la
sua preferenza per la quiete della campagna”, convinto, com’egli è, che la
missione dell’essere umano, “in hac lacrimarum valle”, consiste nel lavoro,
nella solidarietà e nell’amore del prossimo.
Da
ciò, scaturisce la ‘religiosità’, del poeta consistente, da una parte, nel mito
dell’intimità della casa e nella consequenziale favola del nido familiare e, dall’altra, scrive la
Solfanelli, “nell’apprezzamento che egli compie della natura e
l’identificazione della stessa natura sia con l’innocenza (simboleggiata dagli
animali) sia con il nucleo originario della stessa sacralità”.
In tutta questa concezione ‘panica’, diciamo così, dell’esistenza
s’inserisce pure la poetica del ‘fanciullino’, di platonica memoria, tesa a
dimostrare l’ingenuità insita nell’essere umano e volta, inoltre, a provare che
qualsiasi persona, indipendentemente dalla condizione sociale, nasconde in sé,
appunto, un bambino in grado di stupirsi delle piccole cose come, dal suo
canto, fa il poeta che esulta al cospetto dei fatti più umili e modesti.
L’Autrice, verso la fine del saggio, discute, anche se a mo’ di ipotesi,
di una componete psicoanalitica diretta ad interpretare alcuni aspetti
dell’anima pascoliana, fatta di meccanismi di difesa – quali ‘sublimazioni’,
‘rimozioni’, identificazioni’ e quant’altro – non senza, infine, tornare alla
questione degli animali in casa Pascoli: tanti volatili e tanti cani come, ad
esempio, l’amato Gulì, che accompagna il padrone durante le escursioni di
caccia e muore per un tumore al fegato.
Non manca la Solfanelli, nel suo pregevole lavoro, di accennare ai
rapporti del poeta con le sorelle, Ida - andata, poi, in sposa - e,
soprattutto, Maria, detta ’Mariù’; sul legame di quest’ultima col fratello -
vero angelo del focolare o Vestale del poeta - la critica esprime, ancora oggi,
delle riserve tant’è vero che un’esperta della materia, Delfina Ducci, non può
non osservare che essa “travolta dal susseguirsi delle disgrazie familiari,
annegata nelle angosce, si chiude a riccio con nevrotica intolleranza verso tutto”.
Così prosegue la menzionata studiosa: “Oggetto di dedizione totale sarà
ormai Giovanni: con lui un patto segreto, inviolabile, di fedeltà assoluta.
Patto di sangue. Diventa la sorella madre. Qualcuno aggiunge anche moglie. Una
calunnia che avvolge di ombre inquietanti quella ‘prigione’ di Castelvecchio in
cui avevano deciso di vivere lontani dai rumori del mondo” (In ‘Pragmatica’,
maggio 2012).
Chiude, in Appendice, il libro, un ‘Dizionario degli animali’, molto
utile al lettore, nonché una ragionata ed aggiornata bibliografia. Una interessantissima
ricerca, in definitiva, questa di Maria Cristina Solfanelli; “un’opera” - chiarisce,
nel suo intervento ermeneutico, Piero Vassallo - “di erudizione, che affida a
pagine di bella e attraente scrittura le non facili questioni sollevate dalle
scortesi dispute di filosofia e letteratura di fine Ottocento”.
Lino Di Stefano