lunedì 23 febbraio 2015

PASCOLI, LA NATURA E GLI ANIMALI (di Lino Di Stefano)

   L’attenzione degli studiosi, degli uomini di cultura e delle persone sensibili ai richiami dell’arte, è risultata, nei riguardi di Giovanni Pascoli, nel corso degli anni, sempre viva e costante, considerata la profonda sensibilità del poeta per i temi dell’esistenza, per il mistero della vita, per gli eventi - grandi e piccoli – del pianeta, nonché per la natura e per le sue componenti vegetali ed animali.
Anche se, è giocoforza aggiungere, doverosamente che, nella ricorrenza del centenario della morte del poeta, caduta nel 2012, non si è fatto granché, almeno in Italia, salvo qualche Convegno e l’emissione, da parte della Zecca e delle Poste italiane, rispettivamente, di una moneta da 2 euro e di un francobollo da 60 centesimi.
La lirica e la poetica pascoliane sono ricchissime, com’è noto, di contenuti penetranti, considerata l’alta sensibilità del Romagnolo per tutti motivi legati agli enigmi del mondo e agli accadimenti inspiegabili dell’esistere umano, non escluso, altresì, tutto ciò che si manifesta nel regno delle piante e nella sfera degli esseri del creato.
 Su queste due ultime componenti, hanno, di volta in volta, indagato tanti esperti dell’intenso e, nel contempo, cupo universo pascoliano, quantunque, di recente, sia stata una giovanissima studiosa, Maria Cristina Solfanelli, a porre rimedio a qualche manchevolezza in questo campo mediante il succoso saggio dall’indovinato titolo, ‘Pascoli e glianimali da cortile’ (Tabula Fati, Chieti 2014).
   Giustamente, nella sua Presentazione, Vito Moretti, pone l’accento sulla considerazione secondo la quale il poeta “si fa promotore di un recupero pieno della natura, dove s’incontrano non solo individui umili (contadini, gente di fatica, persone d’anima e di sudore), ma – significativamente – un gran numero di animali: volatili e quadrupedi, pennuti e bestie da soma, selvaggina e rettili (…), con un particolare rilievo arrecato ai cani dei quali Pascoli amava contornarsi a Castelvecchio”.
   Nel presente volume, l’Autrice dimostra una notevole padronanza della materia trattata – frutto di intensa applicazione e di particolare amore per il suo ‘auttore’, direbbe Vico – visto, essa scrive, che “la natura del poeta è, appunto, una natura semplice e amica, popolata di carrettieri, di boscaioli, di lavandaie, di tessitrici, di uomini e donne che abitano i loro campi e che vivono le loro vicende assecondando i ritmi lenti delle stagioni e utilizzando gli arnesi di sempre”.
    In tale realtà, com’è noto, il poeta si muove a menadito per il semplice motivo che egli sa scorgervi gli enigmi del cosmo e i segreti dell’infinito in cui l’uomo è immerso; il tutto nel contesto di un simbolismo in linea con i movimenti letterari e filosofici europei, fine secolo, tendenti ad estrinsecarsi in forme espressive figurative avulse dai normali nessi logici. Le dolorose vicende familiari, d’altronde, acuiscono queste componenti del tormentato e pessimistico mondo pascoliano da lui, icasticamente, definito “quest’atomo opaco del male”.
   Anche ciò, in un clima di umanitarismo e fratellanza universali che coinvolgono l’intera comunità  concepita come l’insieme delle persone, degli animali e delle piante costituenti un organismo vivente nell’ambito di complesse relazioni con l’ambiente cosmico. Al riguardo, così esplica Maria Cristina Solfanelli: “Giovanni Pascoli si avvede assai presto che il suo amore per la natura gli permette di vivere le esperienze più appaganti, se non fondamentali della sua vita” in quanto egli “vede negli animali delle creature perfette da rispettare, da amare e da accudire al pari degli esseri umani”.
      Da qui, l’amore del grande Romagnolo per la campagna - oasi di tranquillità e di pace - laddove la cosiddetta civiltà resta soltanto il segno più tangibile di inautenticità, di artificiosità, di corruzione, di inquietudine e di affanno; ma, da qui, inoltre, le riserve del poeta per la scienza e per il cosiddetto progresso - tanto esaltato, dal positivismo - ma, in fondo, fòmite di ansie, di apprensioni, di timori, di turbamenti, in una parola, di dolori.
   Tutto ciò, mette in rilievo anche l ’Autrice per la quale le riserve di Pascoli per la modernità accentuano il suo legame alla “memoria domestica e la sua preferenza per la quiete della campagna”, convinto, com’egli è, che la missione dell’essere umano, “in hac lacrimarum valle”, consiste nel lavoro, nella solidarietà e nell’amore del prossimo.
    Da ciò, scaturisce la ‘religiosità’, del poeta consistente, da una parte, nel mito dell’intimità della casa e nella consequenziale favola del  nido familiare e, dall’altra, scrive la Solfanelli, “nell’apprezzamento che egli compie della natura e l’identificazione della stessa natura sia con l’innocenza (simboleggiata dagli animali) sia con il nucleo originario della stessa sacralità”.
   In tutta questa concezione ‘panica’, diciamo così, dell’esistenza s’inserisce pure la poetica del ‘fanciullino’, di platonica memoria, tesa a dimostrare l’ingenuità insita nell’essere umano e volta, inoltre, a provare che qualsiasi persona, indipendentemente dalla condizione sociale, nasconde in sé, appunto, un bambino in grado di stupirsi delle piccole cose come, dal suo canto, fa il poeta che esulta al cospetto dei fatti più umili e modesti.
   L’Autrice, verso la fine del saggio, discute, anche se a mo’ di ipotesi, di una componete psicoanalitica diretta ad interpretare alcuni aspetti dell’anima pascoliana, fatta di meccanismi di difesa – quali ‘sublimazioni’, ‘rimozioni’, identificazioni’ e quant’altro – non senza, infine, tornare alla questione degli animali in casa Pascoli: tanti volatili e tanti cani come, ad esempio, l’amato Gulì, che accompagna il padrone durante le escursioni di caccia e muore per un tumore al fegato.
   Non manca la Solfanelli, nel suo pregevole lavoro, di accennare ai rapporti del poeta con le sorelle, Ida - andata, poi, in sposa - e, soprattutto, Maria, detta ’Mariù’; sul legame di quest’ultima col fratello - vero angelo del focolare o Vestale del poeta - la critica esprime, ancora oggi, delle riserve tant’è vero che un’esperta della materia, Delfina Ducci, non può non osservare che essa “travolta dal susseguirsi delle disgrazie familiari, annegata nelle angosce, si chiude a riccio con nevrotica  intolleranza verso tutto”.
   Così prosegue la menzionata studiosa: “Oggetto di dedizione totale sarà ormai Giovanni: con lui un patto segreto, inviolabile, di fedeltà assoluta. Patto di sangue. Diventa la sorella madre. Qualcuno aggiunge anche moglie. Una calunnia che avvolge di ombre inquietanti quella ‘prigione’ di Castelvecchio in cui avevano deciso di vivere lontani dai rumori del mondo” (In ‘Pragmatica’, maggio 2012).

   Chiude, in Appendice, il libro, un ‘Dizionario degli animali’, molto utile al lettore, nonché una ragionata ed aggiornata bibliografia. Una interessantissima ricerca, in definitiva, questa di Maria Cristina Solfanelli; “un’opera” - chiarisce, nel suo intervento ermeneutico, Piero Vassallo - “di erudizione, che affida a pagine di bella e attraente scrittura le non facili questioni sollevate dalle scortesi dispute di filosofia e letteratura di fine Ottocento”.

Lino Di Stefano